Guarda, vedi, tocca, annusa, gusta la missione!

Un arcobaleno nel deserto

Intervistiamo suor Carla Barelli, "forse sono parente lontana di Armida Barelli, chi lo sa..." dice, scherzando sul suo cognome, lo stesso della fondatrice dell'Azione Cattolica Italiana. Ha lavorato alcuni anni nella clinica Santa Rosa in Florida (Buenos Aires), il primo ambito missionario delle MC arrivate in Argentina nel 1951. Nel 1991 è stata destinata alla nascente comunità di Poopo (Bolivia). Ci racconta l'avventura dell'arrivo via terra alla missione e ci fa vibrare con la sua testimonianza, profonda e appassionata, sull'incontro e cammino con il popolo Quechua. 


 


Quando sei arrivata in Argentina?
Sono arrivata nel 1978.

Quale fu la tua prima comunità?
La prima fu quella di Merlo (che all’epoca era la casa regionale, n.d.r.) dove appresi un poco di castellano.

E quanto tempo sei rimasta lì?
Da luglio fino a gennaio, quando sono andata  lavorare nella maternità di Florida.

Florida! E’ la stessa maternità dove hanno lavorato le nostre prime sorelle, appena giunte in Argentina?
Si. Il nostro problema delle sorelle infermiere era sempre lo stesso: arrivando qui, con il diploma italiano, bisogna rifare tutti gli esami per poter praticare la professione. Siccome i dottori di questa maternità ci conoscevano bene, e sapevano che arrivavamo preparate e con esperienza di lavoro, ci assumevano con il titolo di studio italiano.

Quante sorelle lavoravano in questa maternità?
Eravamo in quattro: una in emoterapia, una in pediatria, una in ginecologia e io in sala parto.

Come era quest’ambiente, anche all’inizio, nel 1951?
Era una maternità di quartiere, gestita dal comune di Vicente López, in una zona povera. La gente che veniva lì, viveva nei quartieri poveri, le villas. Noi ci trovavamo bene, lì c’era anche una cappella della parrocchia nella quale partecipavamo alla vita pastorale. Un ambiente bello, anche nel rapporto con i medici. Poi, cambiando la persona, i fini, altre idee di fondo…

In che anno si chiuse la collaborazione con l’ospedale Santa Rosa di Florida?
Nel 1987. Quasi tutte noi sorelle infermiere passammo di lì. Eravamo un gruppo grande di infermiere,  lavoravamo lì e nella clinica di Miramar. Poi si è iniziato un processo di ridimensionamento della regione, e noi stesse suore infermiere avevamo intuito che non era più l’ambiente favorevole per una nostra collaborazione. Certe scelte dei medici erano contro i nostri principi morali. Siccome alcune infermiere furono destinate ad altre regioni, abbiamo lasciato, anche se con molto dolore.  La comunità di Miramar era stata chiusa prima ancora, sempre per il problema del personale ridotto.

Dopo Florida, qual è stata la tua successiva comunità?
Dopo Florida sono stata in Italia, anche per curarmi da una brutta epatite. Siccome non potevo esercitare come infermiera, sono stata in varie comunità: Merlo, Villa Atuel, e di nuovo Merlo, dove rimasi fino alla partenza della Bolivia.

Come hai ricevuto la destinazione per la Bolivia?
La decisione di andare in Bolivia fu presa dal consiglio generale, che poi ha chiesto alla regione Argentina di prendersi carico dell’apertura. In quel tempo stavamo chiudendo la comunità di Pirané, e come regione abbiamo accettato. La superiora regionale, suor Maria Rosa, mi ha chiamato, proponendomi di andare a Bolivia, ed io ho accettato subito, con salti di gioia! Fu una gioia così grande, di noi tutte sorelle del primo gruppo. Eravamo: suor Maria Dolores, suor Marisa, suor Francisca, suor Luciangela ed io. Poi Maria Dolores non potette venire.

Raccontaci l’avventura del primo viaggio verso Bolivia…
Con il pullman siamo uscite da Merlo verso la provincia di Jujuy, nel nord.  Sono 36 ore di viaggio. Avevamo casse, valigie… tutto il necessario per la casa: pentole, piatti… tutto di plastica, meno che le pentole! Da Jujuy abbiamo preso un altro pullman che ci ha portate alla Quiaca (altre otto ore di viaggio). Lì avevamo contattato una congregazione femminile che ci accolse nella casa di riposo che gestivano.
Per la prima volta abbiamo fatto l’esperienza dell’altitudine: durante la notte ci ha preso un mal di testa fortissimo. Il giorno seguente, alle tre del pomeriggio, partiva il treno che ci avrebbe portato in Bolivia. Il viaggio fu bello, ma lunghissimo. La notte iniziò a fare molto freddo. La gente ci aveva consigliato di andare a comprare coperte, ma noi non li abbiamo ascoltati. Il treno ebbe un ritardo di otto ore. Arrivammo in Oruro alle sei del pomeriggio, pioveva.  Quando scendemmo dal treno, dopo aver scaricato i bagagli, un signore si offerse di portarci nella casa che ci avrebbe ospitate, una casa religiosa che ci accolse 15 giorni, tempo necessario per abituarci un poco all’altitudine e anche tempo utile per comprare le cose di cui avevamo bisogno. Infine, il 23 marzo, ci siamo spostate a Poopó.  La casa non era ancora terminata, la stavano costruendo, pertanto i primi tempi vivemmo in due camere affittate.

Come fu il processo di inserimento in questa nuova realtà?
E’ stato molto bello: il vicario generale mons. Brauli, ci ha accompagnate molto. Ci diceva sempre: “Non abbiate fretta di lavorare, state almeno sei mesi osservando, camminate nel paese, visitando e conoscendo la gente. Per iniziare il lavoro c’è sempre tempo. Usate il tempo per leggere...”
In Oruro (capoluogo del dipartimento, n.d.r.) c’era il centro della Pastorale Sociale, che possedeva molti libri sulla cultura. Pertanto andavamo, leggevamo, conoscevamo. Perché, veramente, era un altro mondo!

Quindi, è stato anche un processo faticoso e impegnativo…
Un’esperienza forte che abbiamo fatto il giorno in cui ci avvicinavamo in treno a Oruro, quando già eravamo nella regione di Potosí: entrammo in una zona arida: nell’inverno, passato il tempo delle piogge, solo rimangono le pietre delle montagne. Ad un certo punto rimanemmo in silenzio, non avevamo più nemmeno il coraggio di parlare. Eravamo tristi, a dir la verità: ci chiedevamo: “ma dove stiamo andando!?” tutte queste pietre, questo deserto… non c’era nulla! Ad un certo punto apparve nel cielo un arcobaleno. E allora ci siamo dette: “Questa è l’Alleanza che Dio vuole con noi!” (cfr Genesi 9, n.d.r) Era come aver preso coscienza di ciò a cui andavamo incontro, però l’arcobaleno di Dio ci aprì gli orizzonti, ci diede la certezza che Dio stava con noi.
Il tempo dell’inserimento nella realtà, è molto bello: la gente ci fermava per strada, ci chiedeva da dove venivamo… Era la prima comunità religiosa che andava a vivere in Poopó. La prima domenica con la comunità era la Domenica delle Palme. La gente dopo la Messa ci accolse calorosamente: i saluti, le foto…

 

Come vi siete organizzate per la visita alla gente?
Dopo un tempo, visitavamo le famiglie, chiedevamo loro cosa potevamo fare assieme. Iniziammo a preparare i ragazzi alla Comunione; con il padre Jorge, parroco, che però non risiedeva in Poopó, collaboravamo nella pastorale parrocchiale. Fu una collaborazione molto buona: egli diceva “Voi qui siete le “parroche”, io celebro la Messa, e quando avete bisogno mi chiamate, però voi siete quelle che portano avanti tutto”. Visitavamo anche i villaggi più vicini, mentre p. Jorge si occupava delle comunità più lontane, perché aveva il fuoristrada e poteva spostarsi facilmente. Abbiamo provato anche noi a spostarsi, ma era veramente difficile.

Hai lavorato come infermiera?
Ho iniziato ad avvicinarmi alla realtà dell’ospedale, anche perché mi piaceva. Andavo nella campagna a fare i vaccini insieme agli operatori sanitari, così che ho conosciuto molta gente. Suor Marisa iniziò un gruppo di giovani, mentre suor Luciangela e suor Francisca iniziarono a dare lezioni di religione nella scuola. La parrocchia si è in poco tempo ravvivata. Il vescovo un giorno ci disse: “Poopó pareva una parrocchia morta, con la vostra presenza la gente è come rifiorita”.

Come si svolgevano, in concreto, i cammini pastorali?
Lavoravamo molto nelle Comunità di Base (CdB), che nella nostra diocesi (di Oruro, n.d.r.) in quel momento erano una realtà molto forte. Persino nella campagna c’erano comunità che si riunivano attorno alla Bibbia. Non so se ci siano famiglie che non hanno la Bibbia: a loro piace molto la preghiera con la Parola di Dio. Nel 1993, quando facemmo l’incontro diocesano delle CdB in Poopó, parteciparono circa 3000 persone! E in quel tempo nella nostra parrocchia c’erano sette CdB nel paese e quattro nella campagna. Quindi ognuna di noi seguiva una comunità fuori del paese, una volta alla settimana.

Come era Poopó nel 1991 e come è oggi?
Se parliamo della situazione sociale, quando arrivammo era un Poopó povero, che girava attorno alla miniera, la gente soffrì la crisi dell’estrazione mineraria, soprattutto nel 1992 e 1993. In quel momento le famiglie alle volte non avevano cibo da dare ai propri figli. Pertanto abbiamo iniziato una mensa per dare da mangiare ai bambini, portammo avanti questo progetto tutto il 1993. Poi, siccome il costo era molto alto, anche ascoltando i suggerimenti che ci diedero, iniziamo a dare il latte. Più di 120 bambini venivano, ed erano coinvolte più di cento famiglie.

Avevate dei progetti specifici per le donne?
Quando venne suor Palmira, sempre nel 1993, si dedicò soprattutto alla scuola di taglio e cucito. Era molto bello: non solo si insegnava la professione, ma si usava lo spazio e il tempo per dare una formazione integrale alle donne: ogni 15 giorni un incontro sulla salute, e ogni 15 giorni un incontro sulla Bibbia. Ottenemmo una risposta molto positiva da parte della gente. La maggioranza delle famiglie erano portate avanti solo dalle donne, i mariti si erano spostati in Argentina, perché non c’era lavoro. Questa crisi continuò abbastanza, fino a quando si alzò il prezzo del minerale.
Le case erano di fango con il tetto di paglia. Poco per volta  iniziarono a fare il secondo piano, ora negli ultimi anni, dal 2009, avendo avuto un aumento grande del prezzo dei minerale, è arrivata una nuova impresa per l’estrazione, ci sono 600-700 minatori soci della cooperativa. Ogni gruppo ha un luogo specifico dove estrarre il minerale. Tutto questo ha dato una buona entrata alle famiglie, alcune si sono costruite una casa in città, ad Oruro.
Con il benessere si è un po’ allentato il legame della comunità religiosa. I giovani, attraverso i libri e i mezzi di comunicazione, sono molto cambiati. Non significa che disprezzino la loro cultura, però è entrata molto la cultura di fuori. Quando c’è una festa, una danza, la vivono intensamente. Ballano, fin da piccoli, i balli culturali. Però, non piace più parlare il quechua, anche se nella scuola lo hanno messo come lingua obbligatoria.

 E come missionarie, come vivete questo momento storico?
Stiamo in un momento di discernimento, per vedere che posizione prendere. Siamo in un tempo in cui la Chiesa si è chiusa alla cultura e all’inculturazione. Dà molta importanza ai Sacramenti, però molte cose non si accettano dentro della Chiesa. Però la gente continua con le sue pratiche. Per esempio: la gente si confessa, però per loro è molto più importante salire alla montagna all’alba con la famiglia e chiedere perdono,  in un contatto profondo con la natura. Per loro questo è fortissimo.
Una ragazza mi diceva che sentiva nostalgia di quando era bambina, e andava a pascolare con le pecore, ognuna delle quali aveva il suo nome, e mentre esse pascolavano, io guardavo la montagna e sentivo che Dio era vicino a me. Il silenzio, bellissimo, risveglia il contatto con la natura. E diventa il silenzio della gente: in una riunione, nessuno parla contemporaneamente ad un altro: si alza la mano per prendere la parola, e si aspetta che finisca l’altro di parlare. Si parla senza alzare la voce, nemmeno con i bambini.



Cosa ti ha colpito della gente?
L’affetto della gente. Ogni estate ritornavamo alla sede regionale in Argentina. Quando ritornavamo, tutti gli anni venivano a dirci: “Ah, siete tornate! Avevamo paura che non ritornavate più… Perché quando voi non state, il paese sta in silenzio” e con questo volevano dire che si sentiva la mancanza di qualcuno.  Certo, all’inizio era difficile entrare nelle famiglie, ci sentivano tanto diverse. Con questo non significa che non sono accoglienti.

Raccontaci un’esperienza che ti ha colmato di gioia e gratitudine
Io lo dico sempre: l’esperienza in Bolivia mi ha cambiato la vita. Come missionaria, sognavo la missione, ed ho ricevuto un’esperienza forte di missione, che auguro a tutti di poter fare. Non per sentirsi più missionaria, ma l’esperienza dell’incontro con questa cultura ha cambiato molto in me, anche la mia spiritualità, attraverso la caratteristica visione cosmica e olistica. La loro maniera di esprimersi. La loro fede, che 500 anni prima era stata imposta, sono riusciti a mantenerla, nonostante la quasi assenza di sacerdoti della zona, e l’hanno integrata alla loro cultura.
Ho anche imparato ad ascoltare la gente senza giudicarla. Certo, ci sono cose negative, anche se all’inizio, nell’entusiasmo dell’incontro con questa nuova realtà, ci pareva che non avessero nemmeno peccato! Invece siamo tutti uguali, con fragilità e difetti.
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